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BSIDE -STORIA DI UN PROCESSO

“Storia di un imputato”                                                                     di Luca Giammarco, dicembre 2018

Considerazioni generali e riflessioni sul nostro movimento verticale dopo la lunga esperienza giudiziaria nella triste storia di Tito Traversa.

La nostra vicenda giudiziaria ha inizio Giovedi 17 dicembre 2015, giorno in cui apprendo dai giornali (!) con grande stupore, che la mia posizione di indagato, in quanto legale rappresentante del Bside, si stava trasformando in quella di imputato per omicidio colposo nella  tragica vicenda del povero Tito.

Sbaraglio subito il campo dagli equivoci. Vittimismo e/o autocommiserazione sono lontani dallo scopo di questa riflessione ; è chiaro che le uniche vittime sono il piccolo Tito ed i suoi famigliari, morto per un errore non suo, in una vicenda che ha sconvolto tutti e che ha dell’incredibile per quanti eventi sfavorevoli si siano concatenati in quel giorno di luglio del 2013.

Ricordiamo che Tito precipitò in falesia, a causa di alcuni rinvii assemblati male da una sua compagna di scalata e di squadra; la ragazza dodicenne acquistò di sua iniziativa dei gommini sfusi e senza avvisare nessuno, prima di partire per il viaggio, li montò sui propri rinvii senza far ripassare il moschettone sulla fettuccia. Tito utilizzò casualmente il materiale della compagna sulla prima via di riscaldamento e arrivando in sosta passò la corda nei rinvii. Una volta appesosi, i gommini ovviamente cedettero; gli unici rinvii montati correttamente erano purtroppo stati utilizzati sui primi chiodi , troppo in basso per frenare la caduta a terra. Sono state processate tre persone: il sottoscritto Presidente della Società a cui i ragazzi erano tesserati, l’accompagnatore/istruttore presente e il titolare della ditta che ha prodotto i gommini utilizzati, che non avrebbe allegato le istruzioni cartacee al prodotto. L’unico condannato è stato l ‘istruttore presente sul posto per il mancato controllo dei rinvii prima della salita.

Scrivo, solo con l’intento di raccontare un esperienza giudiziaria, in cui tutti gli addetti ai lavori possono potenzialmente incappare e con l intento di stimolare qualche riflessione generale sulla sicurezza nel nostro movimento. Lo faccio, solo ora, in forza di una sentenza emessa ben 5 anni dopo l’ incidente (maggio 2018) che finalmente ha sancito quello abbiamo sostenuto da subito e persino, in tempi non sospetti, prima della tragedia: la nostra totale estraneità con l’ organizzazione di quella gita (organizzata autonomamente dagli istruttori) e la nostra totale innocenza, in quanto nessuna mia /nostra condotta ha avuto un ruolo nella dinamica degli eventi quel giorno ad Orpierre.

E come già chiaramente espresso nella sentenza disciplinare interna alla Fasi ad aprile 2015, anche la sentenza penale nello stralcio che mi riguarda recita inequivocabilmente:

” …e’ infatti emersa, senza ombra di dubbio, la sua totale estraneità in tale organizzazione tanto in prima persona quanto nella qualità del legale rappresentante del bside…” ” Ne consegue che il Giammarco non ha posto in essere alcuna condotta consistente in un contributo causale nell’organizzazione della predetta iniziativa e,di riflesso ,negli accadimenti ,tra cui l evento per cui è processo, che si sono verificati nel corso di tale iniziativa

Libere considerazioni sul sistema giudiziario.

Se il diritto nasce ed esiste per normare e regolamentare il comportamento di diversi individui all’interno di una stessa società, garantendo equità, ci si chiede quando e quanto la macchina giudiziaria abbia perso aderenza alla realtà, diventando un marchingegno mastodontico, lentissimo nel suo dipanarsi attraverso meandri burocratici complicati ed estremamente rigido nei suoi ruoli e nelle proprie decisioni. Tempi giudiziari che non tengono conto dei tempi reali e dell’ impatto che alcune decisioni hanno sulla vita delle persone coinvolte. A questo proposito, è certamente vero che siamo stati assolti, ma ancora mi risuonano alle orecchie le parole del Pm, nella sua discussione in udienza preliminare, richiedendo il mio rinvio a giudizio “..ma si , nonostante molti dubbi… tutto sommato.. vale la pena approfondire la questione formativa in dibattimento…”; tutto con estrema leggerezza , come se non fosse già di per se una pesante condanna, per un innocente, sottoporsi ad un processo penale; perchè, nessuno ti risarcirà per le spese legali inimmaginabili, per gli attacchi mediatici subiti, per il danno d’immagine , per le occasioni di sviluppo imprenditoriale perse e soprattutto per lo stress emotivo e psicologico che comporta un’esperienza del genere e così protratta nel tempo.

Il dibattimento poi, agli occhi di un non addetto catapultato in un tribunale, pare un “teatrino” in cui tutti hanno un ruolo e una parte scritta da un copione ben determinato e in cui la priorità per ciascuno è portare a casa il risultato, senza neccessariamente tenere conto della realtà dei fatti; si insegue una verità parallela detta “processuale” in cui equivoci, fatti insignificanti, interpretazioni dei consulenti, e circostanze ambigue, spesso vengono strumentalizzate dagli avvocati ed utilizzate a proprio uso e consumo. Sarà poi il giudice a dimostrare professionalità nel decidere sul futuro degli imputati, senza subire condizionamenti e soppesando con cura le varie versioni.

La “community”

Quando seppi, in fase di indagini , che il Pm aveva incaricato dei consulenti tecnici per una periza , tra cui una guida alpina , tirammo tutti un gran sospiro di sollievo. Dopo mesi di bombardamento mediatico, stampa, tv e web, caratterizzati da inesattezze e strafalcioni tecnici, pensammo che una guida alpina, uno del nostro mondo, uno della nostra community, come va di moda ora chiamarsi quando ci si illude di appartenere ad una grande famiglia, avrebbe chiarito e spiegato nel dettaglio ciò che era capitato. In realtà nulla di estremamente complicato, una sequenza di eventi molto chiari, che noi tecnici abbiamo capito ad un’ora dall’accaduto, ma che andava semplicemente raccontato in modo semplice ed equilibrato al mondo dei giudici. E’ stato fatto con una sessantina di pagine di perizie nella quali invece, abbiamo assistito ad un ingiustificato accanimento nei confronti di tutti gli indagati, apparso da subito poco oggettivo e vissuto da noi come un vero e proprio attacco da “fuoco amico”. La guida alpina ha evidentemente voluto sfruttare un aula di tribunale per dar sfogo alla sua rabbia anti abusivista contro una società e/o istruttore Fasi, riportando a galla una vecchia questione ancora irrisolta: la diatriba fasi-guide riguardo all’attività outdoor. L’ ha fatto, sostenendo inesattezze tecniche, peraltro smentite poi in dibattimento da altre Guide alpine e animato da un astio, oltretutto, completamente fuori tema; questo è stato un processo per omicidio colposo e non per abuso di professione. Infatti l’ eventuale responsabilità penale prescindeva, ovviamente, dall’inquadramento professionale delle persone interessate. Chiunque ci fosse stato ad accompagnare quei ragazzi (e aggiungo, a svolgere qualsivoglia attività), avrebbe dovuto rispondere dell’accaduto davanti ad un giudice. Una domanda provocatoria sorge dunque spontanea: avrebbe scritto la stessa perizia se al posto degli istruttori fasi ci fosse stato un suo collega?

Per entrare nello specifico delle accuse che ci sono state mosse, il perito ha voluto evidenziare che a prescindere dalla paternità organizzativa, alla luce degli errori commessi dai ragazzi, una buona e attenta scuola di arrampicata avrebbe dovuto prevedere nel percorso formativo di un atleta minorenne sostanzialmente 3 passaggi :

1 La didattica del montaggio dei gommini sui rinvii!! (Chi l ha mai fatto?? e poi, vi pare prudente insegnare ad un bambino a smontare i dispositivi di sicurezza??!!)

2 L’ Obbligo all’utilizzo del moschettone a ghiera in calata dalla sosta , invece che nei rinvii ; sostenendo che questa circostanza avrebbe scongiurato la tragedia (ovviamente) . Ma omettendo di spiegare che ci sono mille motivi per passare in primis la corda nei rinvii ,una volta arrivati in sosta, prima di decidere di optare per qualsiasi altra operazione. E’ ovvio che Tito non abbia commesso alcun errore e che imputare al moschettone a ghiera la causa dell’incidente sia stato solo forviante e tendenzioso.

3 Disporre l’uso personale dell’attrezzatura (riferendosi al fatto che Tito abbia usato i rinvii della compagna). Come se non fosse una pratica consolidata in tutto il mondo sportivo quella di utilizzare i rinvii del compagno, anche solo per scalare sul “tiro montato”; o come se la Guida Alpina non sapesse che molto spesso in falesia, sui tiri più duri, si scala addirittura su rinvii fissi o già posizionati da chissà quale altro scalatore che sta provando lo stesso tiro.

Questi argomenti tecnici sono stati un assist imperdibile per il Pm che ha incentrato inaspettatamente sulla formazione tutti i capi d’imputazione:

La società sportiva ometteva di:

– informare,formare e addestrare i propri iscritti e atleti ,anche minorenni,sul corretto montaggio dei dispositivi,in particolare dei moschettoni a ghiera e dei rinvii in tutte le sue componenti.

-informare,formare e addestrare i propri iscritti sulle procedure sia all’interno che all’ esterno etc etc

– Predisporre materiale informativo e formativo destinato a iscritti sul corretto impiego e montaggio dispositivi di sicurezza.

– disporre l uso strettamente personale della attrezzatura e la verifica preliminare Etc…

Imputazioni dunque che avrebbero voluto sostenere una presunta responsabilità dei Presidenti di società riguardo a eventuali carenze formative dei propri tesserati, paragonandoli, di fatto, al rapporto che si crea in azienda tra datore di lavoro e lavoratore. Tesi talmente assurda, che persino il Pm che successivamente ha ereditato l’ indagine dal suo collega Guariniello, non è stato in grado di sostenere fino in fondo, chiedendo lui stesso l’assoluzione nei miei confronti, una volta appurata che la paternità organizzativa non fosse in alcun modo riconducibile alla Società.

Di fatto, la guida alpina non si è resa conto che, se la sua tesi fosse stata confermata da una sentenza, sarebbe stato un autogol clamoroso, non solo per noi, ma per tutto il mondo verticale, compresa la sua categoria professionale. Con un precedente del genere in caso d incidente (indoor o outdoor che fosse) ci saremmo trovati tutti a rispondere della formazione dei propri allievi senza nessun tipo di controllo e senza limiti temporali.

Una community che non ha mostrato il meglio di se, neppure sulle riviste/siti/blog di settore che il più delle volte, trattando la vicenda in questi anni, si sono limitati al copia incolla dall’Ansa, senza preoccuparsi di approfondire soprattutto tecnicamente e prendere le distanze dalla stampa generalista. L unica testata che è andata oltre, studiandosi accuratamente le carte e le perizie per poi esprimere liberamente il proprio parere, è stata la rivista “Pareti”. Dopo la sentenza, a mettere in discussione la nostra trasparenza, leggere ancora su molti siti di settore :”Assolti per insufficienza di prove Luca Gianmarco, responsabile della scuola Bside che aveva organizzato l’uscita”, rende l’idea della superficialità e della poca professionalità messa in campo, tenuto conto che l’argomento principale della nostra assoluzione sia stata proprio la “non organizzazione” e che la formula di assoluzione sia stata “piena” e non “per insufficienza di prove”.

Fasi. Questione “outdoor” e auspici per il futuro.

Per non incappare ancora in situazioni in cui aule di tribunale diventino occasione di sfogo corporativo per categorie professionale, sarebbe ora che la Fasi, passato questo periodo di transizione, con la futura dirigenza tirasse fuori la testa dalla sabbia e si ponesse il problema di risolvere istituzionalmente la questione dell’outdoor. Del resto una federazione che tra le sue finalità statutarie dice testualmente “…Fasi che in Italia coordina e organizza l’attività didattica, agonistica ed amatoriale dell’Arrampicata Sportiva praticata sulla roccia e su apposite strutture nelle diverse discipline…” non può girarsi dall’altra parte, come fin ad ora ha fatto. La questione è stata sfiorata marginalmente anche nel nostro processo, pur non essendo stato il tema principale. Il rappresentante regionale della Fasi è stato chiamato a deporre e giustamente ha chiarito ciò che si è sempre sentito nei corridoi, ma che dovrebbe essere comunicato ufficialmente e concordato, senza possibilità di fraintendimento, con il collegio delle Guide, ovvero: la possibilità, per le società FASI, di utilizzare l’outdoor, falesie e massi, come strumento di allenamento, quantomeno per i propri gruppi sportivi se non anche per i propri corsi. Tutti sappiamo che esiste una legge quadro del ’89 che regola l ‘abuso di professione delle guide alpine, ma è altrettanto evidente che siamo in presenza di un buco legislativo che nella pratica limita enormemente la divulgazione del nostro sport. Ci sono atleti in regioni d’Italia che per necessità si allenano in falesia con i propri allenatori , non avendo a disposizione strutture indoor. La soluzione è forse assoldare guide alpine a 250 euro al giorno per portare atleti a fare le “ripetute” sull 8A in falesie sportive, con l’unico scopo di controllare il nodo e l’attrezzatura? (come se poi non fossero richieste le stesse attenzioni e competenze all’interno delle strutture, luoghi in cui la guida non è richiesta!) E se anche così fosse, è lampante che ci sono regioni in cui evidentemente, per caratteristiche geografiche, non ci sono guide alpine sufficienti (a volte, forse, neppure una!) per dare risposte alla crescente domanda di appassionati. La fasi ha incassato qualche anno fa, senza battere ciglio una nota sentenza in Lombardia, precedente in cui un istruttore fasi era stato condannato per abuso di professione nel proporre un corso base su roccia e ha perso l’occasione (la Fasi) di combattere una battaglia che è rimasta tutt’ora aperta. Da allora per eccesso di prudenza tutte le società, noi compresi, hanno smesso di proporre corsi outdoor. Altri enti di promozione sportiva, come la Uisp per esempio, non sono stati dello stesso avviso, rivendicando il diritto associativo di proporre l attività ai propri tesserati, anche in ambiente esterno.

Le competenze di allenatori/istruttori e guide alpine sono chiare e definibili. Mi sembra innegabile che le guide alpine non abbiano assolutamente tra le loro competenze, la gestione e l’ allenamento degli atleti, finalizzata alla performance sportiva e tanto meno all attività agonistica, così come è evidente che un allenatore di arrampicata è giusto che non debba imparare a sciare , salire una cascata di ghiaccio o la nord del Cervino (sopratutto se è calabrese per esempio..).

Oltretutto, perchè dimenticarci di quanto l’arrampicata outdoor appartenga alla nostra storia e al nostro dna e rassegnarci come tecnici Fasi ad avvitare volumi fluorescenti sui muri artificiali? Vogliamo davvero pensare che l’arrampicata su roccia non sia fondamentale all’evoluzione tecnica dei nostri atleti e crescere una generazione di “resinari parkouristi”? Non credo basti una legge per la snaturare la storia e le radici di un movimento intero. Fortunatamente molti degli atleti agonisti più forti, restano protagonisti anche su roccia chiodando e salendo vie sempre più difficili e spostando il limite dell’alta difficoltà (e non certo le guide alpine..)

Non dimentichiamoci che agli albori, la prima competizione in assoluto fu organizzata proprio su roccia a Bardonecchia nel ’85. Per esigenze tecniche e pratiche negli anni si è poi passato ad organizzarle sui muri artificiali. E’ curioso che il collegio delle guide molti anni dopo, rivendichi il diritto esclusivo di proporre e insegnare un attività che mai gli è appartenuta culturalmente. La storia del nostro sport parla chiaro e suggerisce che la falesia prima, negli anni ’80 con l’avvento dello spit, e poi il boulder molti anni dopo, appartengano alla tradizione e alla cultura sportiva di questo movimento (comprese Società storiche come la nostra), che si è occupata, non solo di diffondere e spingere quel concetto nuovo, ma anche di renderla possibile chiodando nei decenni le falesie dove tutt’ora scaliamo; il movimento alpinistico ha invece storicamente sempre contrastato quel tipo di evoluzione. E’ evidente che la questione non è certo fare business con l’outdoor o creare una concorrenza alle guide alpine. Anzi, l’ interesse economico delle società sportive suggerirebbe invece, di occuparsi esclusivamente di riempire le proprie sale di arrampicata. Credo però che si ponga da parte dei presidenti di società anche una responsabilità etico-culturale nel divulgare e proporre il nostro sport in un certo modo, rispettandone la storia. Trasmettere ai propri frequentatori anche la “cultura” dell outdoor, delle sue regole, dell etica sportiva, del rispetto dell ambiente e della roccia, della sicurezza, credo sia un dovere che la Fasi e dunque ciascuna società sportiva dovrebbe perseguire in questo momento di grande espansione. Ma forse questo è solo il pensiero di un vecchio arrampicatore cinquantenne che non vuole rassegnarsi ad un evoluzione/involuzione inarrestabile.

Riflessioni sulla sicurezza.

Indubbiamente, dopo incidenti come questi, è obbligatoria una riflessione generale sulla sicurezza e sul ruolo di tutti coloro che divulgano ed insegnano il nostro sport. Accantonando per un attimo la questione outdoor, è invece certo che tutte le attività in palestra rientrino nelle competenze della Fasi e delle sue Società. Pare incredibile che in uno sport potenzialmente  pericoloso come il nostro non ci sia una commissione sicurezza federale strutturata, che detti regole e protocolli chiari, nella gestione quotidiana dei propri muri di arrampicata. I Presidenti sono lasciati soli a se stessi, alla loro sensibilità e competenza tecnica con responsabilità sulle spalle a volte insostenibili. Per esempio, non vi è nessuna linea guida federale che supporti le società nella redazione del DVR (documento di valutazione del rischio), che come sappiamo è obbligatorio e deve prevedere anche tutti i rischi annessi e connessi all’attività sportiva svolta dai propri tesserati, oltre che quelli professionali dei propri lavoratori. E il primo documento che ci è stato richiesto dalla Procura dopo l’incidente, per valutare se ogni nostra attività fosse normata al suo interno è stato proprio il DVR. Uniformarsi tutti a regolamenti federali precisi e ben pensati permetterebbe di aumentare il tasso di sicurezza generale e il tasso di tutela anche degli istruttori stessi, che avrebbero regole di comportamento, manuali tecnici di riferimento da seguire a cui eventualmente appellarsi anche in caso d’ incidente, evitando di richiamarsi ad usi e costumi oppure a consuetudini aleatorie , magari definite da una guida alpina non sempre corretta o aggiornata ai comportamenti più “sportivi”.

Con la frequentazione di massa nelle palestre e nelle falesie a cui stiamo assistendo e l’aumento inevitabile di incidenti e infortuni, vi è il rischio che Procure e tribunali si occupino sempre più di noi. Credo sia auspicabile che questa regolamentazione e sensibilizzazione generale alla maggior sicurezza avvenga grazie ad una spinta dal nostro interno e non con imposizioni esterne, a suon di sentenze e leggi di stato.Tipicamente, in questa società che pare ossessionata dalla sicurezza “assoluta” in tutti i settori, quando precedenti giuridici, spesso con logiche assurde, definiscono con chiarezza le responsabilità individuali, se ne pagano le conseguenze in termini di perdita di libertà. Per esempio , la decisione qualche anno fa, sempre della Procura di Torino, di rinviare a giudizio per omicidio colposo, il compagno sopravvissuto ad un valanga dovrebbe indurci ad andare d’ora in poi a sciare fuori pista da soli? E cosa accadrebbe, se ci trovassimo condannati per aver assicurato male e procurato un danno al nostro compagno di cordata o per avere chiodato una falesia con criteri non ritenuti idonei?

Anche l’obiettivo tanto invocato e auspicato da molti riguardo alle falesie certificate, rischia di essere un arma a doppio taglio. Certificare e classificare le falesie equivale ad accettare che qualcuno (amministrazione pubblica o ente esterno che sia) si prenda la totale responsabilità di un sito e che ne disponga dunque le sorti. Quel qualcuno dovrebbe prendersi in carico, non solo la chiodatura con certi criteri e la manutenzione garantita negli anni, ma anche la sentieristica, la certificazione di idoneità geologica dell’intera aerea , le coperture assicurative adeguate in caso d’incidente etc etc. Credo sia molto difficile immaginare di trovare le risorse protratte nel tempo per un iniziativa così ambiziosa. Il rischio più probabile sarebbe quello di subire ordinaze di chiusura di aree intere, per carenza di fondi o chissa per quali altri cavilli burocratici.

La vera sfida futura per il nostro mondo, in questo momento di enorme espansione, sarà dunque trovare il giusto compromesso tra una sicurezza accettabile, sensibilizzando dall’interno una corretta e consapevole formazione di tutti i praticanti , e una sicurezza obbligatoria ed imposta dall’esterno, che ci ingabbierebbe in una mondo di divieti, nella speranza che incidenti assurdi come questo di Tito non capitino più.